sabato 25 agosto 2012

Il Batman di Nolan in anteprima. CAPOLAVORO, e ho detto tutto...


THE DARK KNIGHT RISES


Di: Christopher Nolan
Con: Christian Bale, Tom Hardy, Anne Hathaway, Gary Oldman, Morgan Freeman, Marion Cotillard, Michael Caine, Joseph Gordon Levitt
Genere: Fantasy (171’)
Commento: C’è una scena, un attimo già eternizzato da poster e merchandising, che racchiude in sé un percorso lungo 7 anni (dal 2005, inizio della trilogia): Batman e Bane, inquadrati dal basso per sembrare ancora più grossi, che si scazzottano davanti al simbolo della giustizia di Gotham, solo sfiorati da una neve dal rimando fortemente simbolico (la purificazione). Uno scontro tra titani magniloquente, iconico, narrativamente denso e ultra-retorico. Quattro aggettivi che dal singolo frame traslocano dritti sull’intero iter di Christopher Nolan, perché tutti si adattano al viaggio da lui consacrato all’uomo-pipistrello. Subito dopo, quanto tutto si compie, il ricordo va al primo film, alla scena del commissario, del bambino, del cappotto, di rara intensità emotiva, per rendere compiuto anche il passaggio della commozione. Vero gigante di Gotham, questo regista inglese si conferma l’unico attualmente sulla piazza capace di regalare nobiltà ad un blockbuster, di sistemare critica e pubblico, di realizzare film indimenticabili, o perché riuscitissimi (è il caso di Batman) o perché destinati a far discutere (Inception e dintorni…). Per i batmaniaci questo è un fumetto dall’accento iper-realista, diverso da qualsiasi altro tentativo precedente a quel 2005, vera e propria data x grazie allo spartiacque di Batman Begins; per i detrattori, che ora fanno le pulci su (molto presunti) buchi di sceneggiatura, The Dark Knight Rises (ignobile la traduzione italiana, per quanto si ispiri a Frank Miller) è un film poliziesco troppo poco credibile. Il punto non è chi ha ragione: il fatto è che, se oggi siamo qui a chiederci se “un tizio che gira vestito da pipistrello pestando criminali a mani nude” (citazione di Lucius Fox nel secondo capitolo della saga) possa davvero vantare plausibilità nel mondo reale, al di fuori del baloon, indirettamente già stiamo rendendo merito a Nolan e al suo genio creativo. E’ il beneficio del dubbio a consacrarlo all’eternità cinematografica. Sì, questo Batman, il più umano dei supereroi (l’unico superpotere è un arsenale hi-tech!), non solo è credibile, ma addirittura agognato in un mondo molto lontano da quello ideale. Vediamo perché, anche lasciandoci trasportare dall’entusiasmo dell’anteprima, parlare di perfezione raggiunta non è eresia.
IL RAPPORTO CON IL CONTESTO – Hollywood, lo sappiamo, non ha mai subito così tanto, come negli ultimi decenni, una crisi di sceneggiature. Film ripresi dalla letteratura, remake, reboot, nel peggiore dei casi remake di remake. Nolan è allergico a tutto questo. Batman arriva direttamente dalle pagine di Bob Kane, certo, ma è un Batman nuovo, oscurato dalla penna di Miller e rivisto più a fondo da Nolan (meno dark di quanto si creda), creatore di un caleidoscopio psicologico in multi-cromia che buca il nero in superficie. Novità e quel tocco di grazia di un regista in stato di grazia (appunto), capace di inventare senza violentare una correttezza filologica che, nel primo scontro tra Batman e Bane, si esprime in tutta la sua potenza figurativa. Qualche nerd potrebbe anche restarci secco; per tutti gli altri è un invito a riscoprire la bellezza della pagina scritta. Dal cinema al fumetto, un percorso che nessuno, prima d’ora, aveva azzardato.
IL POTERE DELLA STORIA – Nolan aveva in mano il film inarrivabile, quel The Dark Knight reso epico dall’ultimo canto di Heath Ledger, il Million Dollar Joker definitivo. Bene, il regista inglese poteva vivere di rendita, conscio che al cinema avrebbe fatto comunque soldi a palate. Invece no, senza il valore aggiunto del Principe Pagliaccio di Gotham, ha inventato una storia e una trama dall’intreccio mai banale, soppesando personaggi e caratteri con una semplicità spiazzante e regalando a tre ore di film la leggerezza di un intrattenimento destinato a farsi ricordare e ri-ammirare. Ci sono quattro colpi di scena, uno dopo l’altro, che cappottano e rivoltano il plot senza sembrare inopportuni o, peggio, eccessivi. Con uno solo di questi, poteva uscirne già un buon film. Inserendone quattro, fino all’ultimo, Nolan garantisce anima e imprevedibilità al suo capolavoro. Altro che vivacchiare…
L’EROE POCO EROE – Di eroi che falliscono, anzi che esplicano la loro redenzione e pure la loro spiritualità nell’errore capitale, è pieno il cinema. Negli ultimi anni l’accelerata è stata persino ostentata. Cominciò Watchmen, ricordate? Oggi Nolan abbatte una nuova barriera, imponendo al fallimento spirituale già visto altre volte, il quid che fa la differenza: Batman è spezzato anche fisicamente, Batman è umiliato, quasi implorante. Ma resta ipotizzabile, non esce mai da se stesso e dalla parte che il mondo e l’attesa gli impongono. Solo allora, dall’abisso (letterale e simbolico) può risorgere. Nessuno finora si era spinto tanto oltre.
IL CRISTO DI GOTHAM – La visione cristiana, invero, è volutamente forzata. Nessuno nel sacrificio può vedere un’appartenenza religiosa: se accetta questa deriva, lo fa a suo rischio e pericolo. Tuttavia il finale resta leggendario: per rendere l’idea dovremmo svelare un passaggio clou, quindi rimandiamo la chiave di lettura di questa interpretazione alla sensibilità dello spettatore. Di certo resta il passaggio della liberazione dall’alter ego. Batman-Wayne è filosofia del doppio ricondotto all’uno, ma solo mediante un cruciale ed estremo gesto. Quando tutti a Gotham (e oltre) sapranno, la scissione sarà possibile, anzi auspicabile (Alfred docet).
OLTRE LA TRAMA – Tematiche forti, attualissime. Capitalismo e oclocrazia, ossia democrazia degenerata, che si perpetua nell’oligarchia della legge marziale e di processi sommari. Il mercenario Bane è figlio del terrorismo, paura cardine del Terzo Millennio, perché lo ha aperto (11 settembre 2011), così come Joker lo era dell’imprevisto e della follia “romantica”. Qui la pianificazione ruba la scena al Caos, per poi ritornarvi, affidandosi ad un progetto folle nella sua logicità. L’altro punto chiave è l’ambientazione: il signore della notte regola i conti con la sua città in pieno giorno, alla luce del sole. Neppure The Dark Knight (che pure vantava parecchie scene “luminose”) era così abbagliante. 
LA PARTE PER IL TUTTO – Un film imprescindibile dalle sue parti precedenti. Un capolavoro uno e trino, e il termine capolavoro non è forzato. Nolan ha creato un film unico di sette ore, che però si separa nell’attesa che crea e nei temi che tratta. The Dark Knight Rises è il colpo di coda risolutivo, che nobilita pure Batman Begins, da molti (da troppi e troppo frettolosamente) definito un film spoglio. C’è chi si chiede se la terza parte della trilogia sia migliore della seconda? Anche qui, come sopra, non è importante la risposta, ma la dignità della domanda. Se è stato possibile avvicinarsi a The Dark Knight, di per sé il miglior cine-fumetto della storia a furor di popolo, o comunque avere dubbi in materia, è perché Nolan ha chiuso un sentiero definitivo in tutta la sua potenza, senza sprecare una virgola.
NOTE A MARGINE – Hans Zimmer non sbaglia un colpo, la colonna sonora è una narrazione aggiunta di epicità unica: Zimmer sta a Nolan come Morricone e Nino Rota stavano a Sergio Leone, in questo western metropolitano destinato a farsi ricordare anche oltre le, pur indelebili, immagini. Altro punto esclamativo sta negli effetti speciali: non c’è un solo passaggio che non sia verosimile, che evidenzi una sbavatura, un errore nella computer grafica o tecnologia similare. L’Imax esalta la pulizia fotografica di Nolan. Peccato, ed è l’unica pecca, per il doppiaggio di Bane: serviva una voce cavernosa e roca, gli hanno dato corde vocali che passano tramite un imbuto esterno forzatissimo. Tom Hardy, uno che la paura la incute sul serio pur recitando sempre mascherato, meritava di meglio…
IL BATMAN DI NOLAN NELLA STORIA – In principio fu Adam West, e il suo Batman onomatopeico. Poi venne Tim Burton e già allora parlare di capolavoro non sembrava forzato. Ma si parlava di favola (e tralasciamo Joel Schumacher e le sue ciofeche). Oggi, con Nolan, Batman acquista un valore letterario. Letteratura da fumetto, ma anche enciclopedia cinematografica. Hollywoodiana nel midollo (tanto che il count down finale potrebbe, per i più snob, suonare stonato), questa trilogia esce dai confini del mero blockbuster per entrare nella storia, densissima e immortale. Chiunque vorrà produrre fumetti di celluloide, d’ora in avanti, dovrà confrontarsi con Nolan, la sua Gotham, il suo mondo di crimine, redenzione, sacrificio e risurrezione. Pietra miliare, senza se e senza ma, destinata a ingigantirsi ulteriormente con l’ausilio del cannocchiale del tempo. 
Da non perdere: Niente è da perdere in questo capolavoro affrescato da cinefumetto. Piuttosto un consiglio: rivedetevi, di fila, l’intera trilogia. Il legame tra i tre film è indissolubile.

VOTO: 10 – LEGGENDARIO

giovedì 13 maggio 2010

Sì, è tornato: IRON MAN 2



Di: Jon Favreau.
Con: Robert Downey Jr., Scarlett Johansson, Gwyneth Paltrow, Samuel Jackson, Michey Rourke.
Genere: Fantasy (124’).
Commento: Il primo “Iron Man”, inutile negarlo, era un’altra cosa. Ma nel periodo in cui il cinema prende i sequel, soprattutto dei fumetti, e si diverte, salvo rari casi, a darli in pasto alla critica più famelica, il fatto che la seconda puntata di Robert Downey Jr. e delle sue protesi non faccia troppo rimpiangere l’episodio di tre anni fa può già essere considerato un successo. Nuovi personaggi, nuova azione, adrenalina all’ennesima potenza: del resto le scene cardine si condiscono con motori e meccanica velocissima, una sorta di Sonic trapiantata sul grande schermo che s’appresta, tra qualche mese, ad accogliere qualcosa di simile (sebbene molto più anni Ottanta) con Tron Legacy. Restiamo sul pezzo però: perché Iron Man 2 funziona, nonostante il gran fracasso, la banalità dell’intreccio e il conglomerato di villains o contro-protagonisti, che ingolfa solitamente un prodotto fumettoso di questo tipo? Perché concettualmente la creatura di Jon Favreau (che ha curato il primo film e, intelligentemente non ha fatto altro che ricalcarne le linee guida nel segno della continuità) è nata per vivere velocemente. I dialoghi non sono mai profondi, ma scelgono di essere brillanti, in modo da divertire e lasciare qualcosa: non c’è vacuità, dunque, soltanto tanta frenesia che, al termine del frullatone, consegna al pubblico, se non pensieri filosofici sul rapporto uomo-macchina, quanto meno tanto divertimento e ironia. Per questo l’eroe Marvel è nato sul grande schermo e questa mission riesce a mantenere: i nemici entrano subito in scena, senza perdite di tempo (attenzione all’incipit, che fa ripartire la seconda parte esattamente da dove terminava il primo film, solo da diversa prospettiva), l’intreccio si nutre di una clorofilla che è il caos (idealmente musicato dagli AC/DC), ben dipanato perché rimane superficiale. Il personaggio di Nick Fury è indubbiamente affascinante, promette nuove storie correlate e soprattutto svela la seconda grande arma di questa serie: il carisma dei suoi protagonisti. Su tutti Robert Downey Jr. e il cattivo perfetto Mickey Rourke: talmente “in ruolo” da apparire nati proprio per questa pellicola.
Da non perdere: Il primo incontro ravvicinato tra Iron Man e Whiplash, che non a caso ha nutrito pesantemente il trailer del film. Altissima tensione, in tutti i sensi.

VOTO: 7,5 – RESISTENTE

MATRIMONI E ALTRI DISASTRI... non è un disastro!



Di: Nina Di Majo.
Con: Margherita Buy, Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Francesca Inauid.
Genere: Commedia (102’)
Commento: Quasi una versione filmica di “Quello che le donne non dicono” della Mannoia (specie osservando la prima donna del racconto), o, se preferite, una pellicola decisamente al femminile, partorita, scritta, studiata e interpretata in esclusiva dal gentil sesso. Ben venga tuttavia questa forma di “razzismo sessuale” se serve poi a produrre qualcosa che forse non è del tutto fresco, eppure sa evitare il congelamento di certi stereotipi all’italiana. Matrimoni e altri disastri non profuma certo di lavanda, però sa evitare la muffa di alcune storie da dé jà vu e sa basare il suo successo e l’obiettivo a metà centrato su due paradossi di fondo: intanto, incentra una commedia “collettiva” (il matrimonio, banalmente, si fa in due, senza contare ospiti, genitori, testimoni e quant’altro) sulla vertiginosa prova di Margherita Buy, in assoluto il vero portento della pellicola. Poi si rifiuta finalmente di scrivere un finale concatenato e incatenato, evitando di chiudere alcuni rivoli che sfociano dalla trama principale: non tutto deve essere giustificato dietro ad una moraletta a mo’ di chiosa, qualche peccato può rimanere segregato e la felicità, in fondo, non ha bisogno di una logica chiusura. Di sicuro il cambiamento dei personaggi (generalmente in meglio per i buoni, verso l’oscurantismo per i cattivi) viene mantenuto da capo a piedi, ma sprizza un non so che di sincero in quell’ammiccamento continuo ai vizi e alle storture di alcuni dei protagonisti, anche se messi in cattiva luce. Un lavoro teatrale, di marionette intessute su una storia non eccelsa tuttavia già capace di evitare il piattume (e il pattume) di certa filmografia. Fabio Volo è filosofia dell’ignoranza: forse ci fa, forse ci è, però dove lo metti sta, e ci sta bene, mentre la Littizzetto, udite udite, usa un vocabolario edulcorato che pure riesce di credere veritiero. La riprova che, con intelligenza e un grande talento solista, tutta l’orchestra, anche senza budget kolossali, può suonare un buon concerto.
Da non perdere: La pubblicità occulta verso il Mac? O magari il contenuto di quel Mac…

VOTO: 7,5 – RIUSCIT(IN)O

Di titanico c'è ben poco: SCONTRO TRA TITANI



Di: Louis Letterier
Con: Sam Wortinghton, Liam Neeson, Gemma Arterton, Ralph Fiennes.
Genere: Fantasy (105’)
Commento: Vaccata fantasy travestita da kolossal, con abbondanza di effetti digitali pixellosi, dunque mal riusciti, e la stolta credenza che la quantità sia sinonimo di qualità. Invece no, anche in un film nato per essere fracassone, con il passaporto obbligato di opera commerciale ed esageratamente plebea, il troppo stroppia: troppi i nemici, che addensandosi rubano un risibile spazio nella trama (ampia la presentazione dei cattivi, decadente ancora prima di incutere timore il loro destino), troppe le citazioni da altri film (da Il signore degli anelli, saccheggiatissimo nelle scenografie, a Excalibur, uno dei pionieri degli effetti speciali, e si era negli anni ’80), troppi i dialoghi fasulli ritagliati su un copione base visto e rivisto, pregno di scontatezza e di epica da bar sport. Stupisce il cast, nel senso che lo spreco è evidente scorrendo i nomi di artisti della new generation – Sam “Avatar” Wortinghton e la (s)ex bond girl Gemma Arterton – mixati con mostri sacri che il fantasy però l’hanno appena masticato (Ralph Fiennes/Ade è Voldemort in Harry Potter, Liam Neeson è un pesce fuor d’acqua, punto e stop). La trama è clamorosamente piatta, veloce, da videogioco, anzi, peggio di un videogioco, perché un game ben fatto propone imprese decisamente più difficili e meno banalizzate di questo pastiche, o pastrocchio, che non rende merito alla nuova moda del peplum movie. I saliscendi restano così potenziali, e l’attesa del next level è ampiamente preannunciata in tutte le sue sfumature, tanto che basta un minimo di arguzia per argomentare già un finale migliore, prima ancora di vedere la reale bruttura scelta come soluzione dal regista (che non a caso lavorò all’esagerato Hulk). Psicologia assente, naturalmente, perché l’action movie vuole la sua parte, e non venite a dirci che questo è un film senza pretese: perché il battage pubblicitario e il portafoglio straripante, esigevano ben altre emozioni. O, almeno, ben altra adrenalina.
Da non perdere: Quei 2 euro e 50 letteralmente rubati per un 3D che non ha senso. Se proprio dovete, guardatelo nelle vecchie, sane due dimensioni.

VOTO: 3 – COLPO GOBBO

Fenomeno d'Oltralpe: IL PICCOLO NICOLAS E I SUOI GENITORI



Di: Laurent Tirard.
Con: Kad Merad, Valerie Lemercier, Maxime Godart.
Genere: Commedia (91’).
Commento: Una delizia per gli occhi, per l’animo e, perché no?, pure per il cervello. I francesi lasciano perdere il palato e il patriottismo della tradizione gastronomica (ma in questa pellicola v’è un pasto che vale la pena di godere) e danno una bella lezione anche alla nostra ritrita commedia. “Nicolas” è un film fresco, come la visuale del mondo da parte di un bambino, e conferma Kad Merad, attore semisconosciuto fino a due stagioni fa, come una certezza: quando c’è lui, andate tranquilli che sarà un lavoro riuscito. Ha bisogno di lavorare in coppia, stavolta in trio, in un film che risolleva la visione della famiglia senza bisogno di frasi fatte o luoghi comuni, bensì con l’inatteso e il caricaturale. Questo perché il mondo deve per forza riuscire esagerato, se viene visto con gli occhi di un pre-adolescente: sia che si tratti di un continuo equivoco (tra un fratellino che nasce o magari ruba soltanto la scena, un genitore con il volto deformato di un orco, un bravo meccanico scambiato per un infallibile sicario), sia che si tratti di dipingere situazioni con tratto monotematico, a senso unico, ma non per questo pesante. Né stupisce che il racconto arrivi dal padre di Asterix, Goschinny, uno dei fumetti più intelligenti mai partoriti. Nicolas e i suoi compagni hanno il gusto retrò, che lascia buon umore – e un filo di dipendenza – in chi esce dalla sala, in una riproposizione sana di quelle che furono le simpatiche canaglie americane della televisione, diretta evoluzione, un filo più rapida e sgangherata, del poetico monello di Chaplin. Che guarda caso, anche se erroneamente, passa spesso per essere più francese che inglese. La regia stilizzata, eppure mai frenetica, fa il resto, condendo con la giusta mano e impacchettando il prodotto. Dedicato a noi, che per riscoprire il nostro Gianburrasca abbiamo avuto bisogno dei cugini d’Oltralpe. In un ritorno al passato che profuma di moderna nostalgia.
Da non perdere: Quei 5-6 minuti iniziali, sufficienti a tratteggiare tutti i personaggi principali. Titoli di testa in medias res, perché presentano e al contempo immettono nel clima gioviale del racconto.

VOTO: 9 - DELIZIOSO

venerdì 12 marzo 2010

L'ultimo Clint (che non sbaglia un colpo): INVICTUS



Di: Clint Eastwood.
Con: Morgan Freeman, Matt Damon, Matt Stern, Patrick Mofokeng.
Genere: Storico/Sportivo (134’).
Commento: La politica quando ancora faceva la politica, e lo sport come arma di seduzione di massa. Non è il cinema a inventare la storia, è la Storia, con la esse maiuscola, a farsi cinema, impostando una vicenda che sembra uscita dalla sceneggiatura artificiale perfetta e invece è mero frutto naturale del destino. Di quel Sudafrica creato con una partita, un Mondiale, di rugby. Stile “Quando eravamo re”, un condensato di pura epica, Clint ai tempi di Nelson. Uno dei rari casi di film che promette e mantiene. E soprattutto un (capo)lavoro doverosamente annunciato dai tre vertici del triangolo di celluloide: Mandela da un lato, Eastwood dall’altro e, dulcis in fundo, l’avventura sportiva forse più puntuale e rimbombante umanamente mai partorita. Da tre colossi non poteva che uscire un monumento: del cinema e dell’emozione, che s’allaccia all’arte filmica poliedrica del regista americano più prolifico e al contempo più ispirato degli ultimi anni, introducendo il filone sportivo “puro”, toccato ma soffocato da tematica ben più struggente in “Million Dollar Baby”, e messo in questo caso in parallelo senza subordinate con la politica, disciplina realizzata sul campo, anche quando parte da un progetto a tavolino. Clint è l’Omero dell’epica sportiva, perché questa è la strada che sceglie di percorrere, a costo di tralasciare ogni tanto l’equilibrio che per larghi tratti regge invece un progetto dai toni, dai colori e dai ritmi iper-classici: poteva mostrare le brutture del Sudafrica con maggiore crudezza visiva e quel finale denso e ottimista, in verità, stride con quanto ancora accade nella propaggine più meridionale dell’Africa. Ma la sua limatura sembra voluta, non casuale, come del resto nulla sfugge a chi ha maturato un’esperienza filmica, che porta ora a dosare con il bilancino ogni singolo fotogramma: cernita e rappresentazione. Come Michelangelo, insomma, Clint toglie e scalpella via, e come un Canaletto, invece, scelto il sentiero da percorrere e scartati tutti gli altri, ricama e aggiunge particolari deliziosi. Anche nell’evento clou del film, il ricordo del prigioniero 46664, si passa per un dolore e un’umiliazione appena accennate agli occhi (prevale il non-visto) eppure ben coscienti per chi sappia capirle, ponendo invece in risalto, poeticamente, il riscatto che passa tramite gli splendidi versi di William Hernest Henley, autore del componimento “Invictus”, che dà il titolo al film. A livello di realizzazione “sportiva” poi si ottiene quanto di meglio si possa sperare, con degna menzione delle riprese dal campo, e persino Matt Damon, che sembrava sin qui abbonato alla parte del ragazzaccio tutta azione, dimostra un cuore sotto i muscoli, adattandosi perfettamente al clima di grancassa e di centellinata esaltazione che permea ogni gara all’Ellis Park di Johannesburg. Le gare di rugby sembrano vere, anche perché accanto alla fiction tornano documentari che hanno fatto la storia (su tutti lo spezzone delle quattro mete di Lomu, il migliore giocatore di sempre della palla ovale, nella semifinale in cui la Nuova Zelanda schiantò l’Inghilterra, ponendosi poi come unica antagonista, annunciata ma rispettata) e contribuiscono alla credibilità della telecamera. Stonate, forse, alcune esagerazioni: il cronometro che rimbomba nell’ultimo count-down, le risse con grugniti di ogni sorta a simboleggiare la furia di un popolo alla ricerca di una nuova età dell’oro, e alcuni picchi di retorica oggettivamente difficili da digerire. Ma, nell’epoca dei Caressa e dell’”incredibile” troppo poco credibile, Eastwood ha la capacità di apparire sincero e di non lanciare acuti di sentimentalismo casuali. Freeman fa storia a sé, elargendo tutto il carisma di Mandela in quella compassata serenità da leader maturo, che trasmuta le insicurezze in certezze, perché prima del potere mette il sacrificio attuato per arrivare alla meta (non solo sportiva). Una prova che giustifica il casting, non solo con la somiglianza fisica tra protagonista filmico e reale. Ultima annotazione, forse la più convincente: Eastwood, come sempre, ha un occhio di riguardo anche per i “cattivi”, per gli sconfitti, e crede nella forza delle redenzione più che della condanna incancellabile. Ecco perché questo film, tratto da una storia vera e sospinto nella sceneggiatura dal libro di Carlin “Ama il tuo nemico”, sembra scritto su misura proprio per i valori dell’ennesimo, magnificente (anche troppo) Clint.
Da non perdere: Uno dei passaggi più commoventi dell’intera pellicola: i quattro biglietti per il match finale regalati alla famiglia da capitan Pienaar. L’ultimo dei quali ad un ospite inatteso, in un simbolico omaggio ai tempi che cambiano.

VOTO: 8.5 - POSSENTE

giovedì 11 marzo 2010

Uno Scorsese poco Scorsese: SHUTTER ISLAND



Di: Martin Scorsese
Con: Leonardo Di Caprio, Ben Kinglsey, Mark Ruffalo.
Genere: Thriller (137’).
Commento: Buona storia non è necessariamente sinonimo di buona sceneggiatura, e allora Shutter Island di Scorsese rischia di ridursi ad un buon battage pubblicitario per l’omonimo romanzo di Dennis Lehane. Di Caprio è sempre Di Caprio, anche se alla lunga rischia di inebetirsi nella solita espressione corrugata e ed eternamente combattuta che condiziona ormai tutti i suoi ultimi prodotti, mentre al magno regista va, se non altro, riconosciuto di avere osato uscendo, con i colori e le atmosfere gotiche, dai canoni classici che ne avevano contraddistinto gli ultimi lavori. Detto questo, la realizzazione funziona a metà: perché la visionarietà degli squarci onirici pare da subito un flash-forward sprecato, da lavorare diversamente; perché il colpo di scena, che tutto sommato funziona, arriva appoggiato da una serie di psicosi mentali del protagonista. Meglio il capovolgimento fulmineo o quello viaggiante di pari passo con la trama? Questione di gusti, certo è che l’effetto ottenuto sembra quantomeno un po’ bloccato. Tinte horror e molto thriller completano il quadro, in un labirinto a chiocciola che richiama Mad House e pure il fumetto di Batman Arkham Asylum, in quello che non è un elogio della follia, ma una consapevole e misurata (forse troppo) discesa nella nebbia della mente umana. Curioso, nell’equilibrio di Scorsese, che proprio nel luogo e nel passato più oscuro si posso ritrovare la verità unica e imprescindibile (dopo vari effetti Rashomon, ovvero ripetizioni da visuali diverse, appena abbozzati). Con quella battuta finale che è un colpo di teatro (raro) che nuovamente sbilancia il confine tra mondo virtuale ricreato e reale consapevolezza di un futuro migliore nella realizzazione del destino peggiore. Da vedere, sapendo però di avere a che fare con uno Scorsese che sperimenta e, dunque, non convince.
Da non perdere: I tre suoni della sirena, che valgono più di tutto il resto della colonna sonora.

VOTO: 6 - INQUIETO